FONDAZIONE MIGRANTES
ORGANISMO PASTORALE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Palermo città aperta?

(15 dicembre 2014) - Non c’è la guerriglia, ma gli immigrati restano scarto, talvolta merce sulla quale lucrare
15 Dicembre 2014
(15 dicembre 2014) - L’eco degli scontri di Tor Sapienza a Palermo giunge mitigato, lontano. In città e in provincia la convivenza tra residenti e migranti finora non ha fatto registrare punti di rottura eclatanti. Il malumore, tuttavia, talvolta cova sottotraccia. Non potrebbe essere altrimenti, del resto, visto che i migranti sono spesso lasciati in balia di loro stessi, senza null’altro da fare che attendere una risposta da parte della Commissione territoriale, chiamata a esaminare la loro richiesta di protezione internazionale. Una decisione, questa, che arriva anche a distanza di un anno dall’intervista resa dagli stranieri davanti al consesso degli esperti ministeriali.
Raramente i residenti comprendono il disagio che alimenta le proteste, tacciando i profughi, semmai, di ingratitudine per la generosità del paese che li ospita. Allora si levano i mugugni del condominio in cui sorge la comunità alloggio e contro il centro di accoglienza saettano le invettive delle case vicine. Gli ultimi tentativi di ribellione dei migranti risalgono alla scorsa estate, quando un gruppo di persone scese in strada per contestare la violazione dei loro diritti.
Li hanno sparsi tra le montagne o in paesini lontani, piazzati ovunque vi fosse un pertugio con uno straccio di abitabilità, un proprietario dichiaratosi disponibile a ospitare gli ultimi arrivati, fosse una pensione o una casa da troppo tempo sfitta e quindi da mettere a reddito. Tutto senza muovere un dito per farli avanzare al grado di penultimi. L’ombra, il sospetto del business fine a stesso ad addensarsi sopra ogni convenzione fresca di protocollo, a macchiare il lavoro onesto, la passione civile di tanti.
Dell’accoglienza panormita nel periodo della cd. “emergenza” e dell’arrivo massiccio di profughi si è fatta carico soprattutto la Caritas diocesana, utilizzando le risorse dell’otto per mille e coinvolgendo schiere di volontari e di fedeli, per dare una riposta ai bisogni primari di chi era reduce da mesi di stenti e sofferenza. Don Sergio Mattaliano, direttore dell’organismo pastorale, nell’adempiere a questo servizio, si è sentito chiamato dalla Provvidenza, fin dalla nomina da parte dell’arcivescovo Romeo, avvenuta negli stessi giorni della strage del 3 ottobre. L’esempio e le parole di Papa Francesco a dare coraggio e speranza, a indicare con più forza la strada tracciata dal Vangelo.
Anche loro, gli uomini di buona volontà, hanno accusato lo sforzo. Portavano amore ed è stato loro chiesto di supplire lo Stato. Non è colpa loro se le istituzioni hanno mostrato lacune e fallimenti: nella mancanza di coordinamento, nella pochezza di controlli alle strutture convenzionate, nell’improvvisazione adottatta come regola di fondo per affrontare un fenomeno che non è più fenomeno.
Le immagini più penose di questo tempo hanno il volto dei profughi che negli ultimi mesi abbiamo visto, con sempre maggiore frequenza, aggirarsi per le strade cittadine più frequentate, per chiedere l’elemosina; hanno l’espressione sconsolata dei minori non accompagnati abbandonati in terre di nessuno.
Per chi vive da più tempo nel capoluogo, l’integrazione non sempre percorre strade piane e libere da ostacoli. “Palermo, paradossalmente, grazie alla sua illegalità, offre occasioni che altrove non ci sono” ci ha detto qualche tempo fa il direttore del Centro Astalli di Palermo. I corsi di prima formazione e di avviamento al lavoro degli stranieri sono aumentati, ma non basta. L’occupazione, quando c’è, è spesso in nero e schiacciata su mansioni di basso livello, anche quando la forza lavoro è qualificata (non mancano i lavoratori titolati che si ritrovano a svolgere mansioni lontane anni luce dai titoli di studio conseguiti nei paesi di origine). A molti, allora, non resta che imbustare la spesa nei supermercati o andare a ingrossare l’esercito dei parcheggiatori abusivi.
Anche le abitazioni rappresentano lo scarto dell’offerta immobiliare cittadina. Gli immigrati vivono spesso in affollatissime case, non di rado in condizioni fatiscenti, concentrate perlopiù attorno ai mercati storici. A loro vengono riservati quegli immobili che gli autoctoni non prenderebbero mai in locazione. Li affittano a prezzo pieno e senza regolare contratto nel 40% dei casi.
Chi arriva adesso non pare destinato ad avere maggiori occasioni rispetto a chi lo ha preceduto. Li abbiamo visti quest’estate, mentre salpavano dalle navi arruolate nell’operazione Mare Nostrum, con indosso maglioni fradici di sale, chi scalzo, oppure con i piedi avvolti con pezzi di stoffa. Gli eritrei davano più grattacapi ai volontari: hanno i piedi grandi, per loro servono scarpe dal 43 a salire.
Cosa ne sanno queste persone di Mare Nostrum, di Triton, di accordi bilaterali, di chi si ostina a chiamarli “clandestini”? Ne sanno quanto ne sapevano i nostri emigranti che sbarcavano a Ellis Island, dopo traversate nelle terzi classi di piroscafi infestate da epidemie mortali.
È sempre lo stesso mare, del resto, solo con qualche guerra in più sulle spalle.
(Luca Insalaco - Palermo)