I loro figli vanno a scuola in Italia come facevano a Kabul. La differenza è che le due ragazze possono frequentare le lezioni e che tutti sono sicuri di tornare a casa. A proposito di vie legali e sicure per entrare in Italia, la storia della famiglia Azimi è esemplare della disperazione che sconvolge i profughi e che un po’ tutti in Italia sembriamo aver dimenticato. Oggi sono salvi, ma in tre maledetti giorni dell’agosto 2021 a Kabul la loro vita è stata sconvolta per sempre. Padre, madre e quattro figli minorenni, dopo due giorni di attesa in aeroporto sono riusciti a sfuggire ai taleban salendo sul volo della Farnesina per evacuare i collaboratori delle istituzioni italiane. Il padre lavorava come sacrestano dell’unica missione cattolica del Paese retta dal padre barnabita Giovanni Scalese, partito a sua volta. I taleban non avrebbero risparmiato nessuno degli Azimi, che oltre ad essere collaboratori del “nemico” occidentale, sono di etnia hazara, musulmani sciiti, odiata in Afghanistan dai taleban, pashtun e sunniti. Sono salvi, ma il loro mondo, la loro esistenza non sarà mai più la stessa. E le loro vite restano divise. Da una parte il costante sforzo di integrarsi in una città della Toscana, Massa, radicalmente diversa da Kabul.
Dall’altra il pensiero a parenti, amici, compagne e compagni che da Kabul non sono potuti fuggire. I contatti telefonici frequenti non alleviano la nostalgia. Le ragazze sono asserragliate in casa e anche i maschi vivono oppressi dal rigore talebano. Avevamo scritto di questa famiglia un anno fa. Siamo tornati a Massa per incontrarli in occasione della visita di alcuni istituti scolastici superiori cittadini alla mostra sui corridoi umanitari della Caritas italiana allestita dalla diocesi nel Chiostro del Seminario Vescovile. Accolti nell’ambito del Sai, il Servizio pubblico di accoglienza rifugiati, dalla Migrantes diocesana, vivono in un grande appartamento in centro e hanno fatto grandi passi avanti.
Sono la prova di un’integrazione che si compie nonostante gli ostacoli burocratici in cui siamo maestri. Merito soprattutto dell’accoglienza diffusa e della Migrantes. Il padre ha trovato lavoro in un’officina. Le due figlie maggiori proseguono gli studi universitari rispettivamente in Economia e Giurisprudenza a Torino grazie a borse di studio. I due maschi tredicenni frequentano la seconda media, le due ragazze 18enni sono in quarta liceo artistico. «Sono una famiglia laboriosa, unita e affiatata – spiega Sara Vatteroni, direttrice della Migrantes Toscana – hanno imparato la nostra lingua grazie ai corsi di sostegno e anche la madre, nonostante sia analfabeta, è riuscita ad apprendere un po’ di parole». I quattro figli sono stati accolti bene da compagni e professori. La loro presenza è stata di stimolo. Ma il pensiero fisso va ai loro coetanei che dovrebbero fuggire in Pakistan o Iran. Poi lì le condizioni dei campi profughi, checché ne dica il ministro Piantedosi, li spingono ad arrivare in Europa o prendendo in Turchia una barca per la rotta calabra o rischiando la vita sulla rotta balcanica fino a Trieste. E al figlio 27 enne rinchiuso da anni in Indonesia nel campo di Pekanbaru, sull’isola di Sumatra. Vive sospeso con altri 13.700 afghani che non sono considerati rifugiati dal governo. Li sostiene solo l’Oim, l’organizzazione internazionale per i migranti. L’Italia e l’Ue tanto invocata potrebbero aiutarli a uscire da questo limbo disumano andando a prendere il giovane e altri profughi, dando seguito alle parole di questi giorni coi fatti.
Paolo Lambruschi – Avvenire