Mettendo a confronto la legge di Mosè e la fede in Cristo, con un crescendo di argomentazioni Paolo richiama ai Galati cristiani l’eccellenza della loro relazione a Cristo. Tale relazione non solo rende «tutti uno in Cristo Gesù» (3,28), ma mostra anche una singolare potenza nel rendere «tutti figli di Dio» (3,26), senza che in ciò abbiano valore distinzioni etniche, civili e perfino sessuali («non c’è giudeo, né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è uomo né donna» 3,28).
Indurre le comunità cristiane a riflettere su Gal 3,23-29 nel contesto dell’attuale società italiana, è scelta di indubbio valore che comporta però qualche rischio. Di valore perché spinge i credenti a confrontarsi con aspetti profondi della propria identità, il che costituisce, tra l’altro, una presa di posizione matura e una risposta sapiente alle tante provocazioni e sfide culturali di cui essi sono fatti oggetti. Il rischio scaturisce dal fatto che, in un clima saturo di contrapposizioni socio-politiche, il ricco pensiero paolino sia compreso e utilizzato strumentalmente per avvallare precomprensioni ideologiche più che per animare scelte di fede. L’intento del presente articolo è perciò di offrire alcune linee orientative che permettano di inquadrare questo testo di Galati secondo la prospettiva dell’apostolo stesso e di tutti i suoi scritti.
Prima di tutto, le sorprendenti affermazioni sulla fede di Gal 3,23-29 mettono in luce la prospettiva apocalittica che soggiace al discorso. «L’appartenenza a Cristo» (3,29) opera una «nuova creazione» (cf. 6,15). Mediante la fede suscitata dall’annuncio del Vangelo (cfr. 1,7.8.9.11; 2,5.7.9.14; 4,13), nel credente si concretizza e si rende visibile una nuova identità che lo spinge ad un’unione sempre più profonda a Cristo stesso, a tal punto da esserne «rivestito» (3,27). In tale dinamismo nessun’altra determinazione ha valore, né il ruolo della Legge di Mosè può essere in qualche modo equiparabile.
Don Maurizio Compiani
Biblista - Pro-Rettore del Collegio Borromeo
Pavia