FONDAZIONE MIGRANTES
ORGANISMO PASTORALE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Lamin e Liban, due giovani rifugiati in fuga dal “dolore”

(28 agosto 2014) - Ospiti entrambi del centro Sprar “Polito” di Castelvetrano, sognano uno di diventare agricoltore e l’altro medico, per aiutare in Somalia “chi non ha i soldi per curarsi”
28 Agosto 2014
(28 agosto 2014) - Lunghi capelli neri rasta, coperti in piena estate da un cappello di lana, sguardo profondo ma velato da una enorme tristezza e diverse cicatrici sul corpo a ricordargli le torture subìte in Libia nell’attesa di imbarcarsi su uno dei tanti barconi della speranza e di attraversare il Canale di Sicilia per giungere in Italia e curarsi dalla rara malattia alle ossa dalla quale è affetto. Lamin ha appena 26 anni ed esperienze che nessuno vorrebbe mai vivere nel corso della sua esistenza.
Originario del Gambia, ospite del centro Sprar “Polito” di Castelvetrano, gestito dalla cooperativa “Insieme”, già in possesso dello status di rifugiato, Lamin, che frequenta un corso di italiano e sogna di lavorare in campagna, a contatto con la natura, è arrivato in Sicilia, a Lampedusa, il 25 settembre 2013.
“Il mio viaggio – dice – è durato sei mesi. Ero già ammalato in Gambia e i medici mi dissero che potevo salvarmi soltanto se fossi andato in Europa per farmi curare. Mio padre raccolse i soldi necessari e me li diede. Dal Senegal ho raggiunto la Libia, dove sono stato catturato, messo in prigione e torturato. Sono stato picchiato e ferito alle braccia e al volto con un coltello e mi hanno tagliato i capelli. C’è stato, però, anche chi mi ha aiutato. Un libico di guardia alla prigione, un giorno, ha lasciato la porta della mia cella aperta e poi mi ha accompagnato in un posto dove c’erano altri gambiani con i quali sono andato via”.
Il racconto di Lamin si fa sempre più incalzante.
“La traversata è stata molto rischiosa – aggiunge –. Sulla barca eravamo circa 180, comprese donne e bambini al di sotto dei 10 anni. Non sapevo nuotare, ma sono partito ugualmente. Quando siamo stati lontani dalla costa, con un telefono satellitare, abbiamo fatto una telefonata e la Guardia costiera è intervenuta salvandoci. I militari della Marina militare ci hanno dato cibo, acqua e le cure necessarie”.
Da quando è arrivato a Castelvetrano, pochi giorni dopo lo sbarco a Lampedusa, Lamin, per fronteggiare la malattia dalla quale è affetto, ha già subìto due interventi chirurgici a un’anca e a un piede. Tra breve, sempre sostenuto dagli operatori della cooperativa “Insieme”, ne dovrà affrontare un altro a una spalla.
“Fossi rimasto in Gambia – prosegue – sarei già morto. Grazie a tutti per le cure che sto ricevendo. Voglio rimanere qui, trovare un lavoro e poi tornare nel mio paese, a casa, a trovare la mia famiglia: nonna, papà, mamma, mio fratello e mia sorella. Li sento al telefono, ma non è la stessa cosa di poterli vedere e abbracciare”.  
Poi conclude: “Trovo gli italiani gentili e riesco a instaurare qualche relazione”.
Chi, invece, non ha amici italiani e si sente guardato con pregiudizio perchè “le persone qui non sono contente di vedermi” è Liban, 22 anni, somalo, sbarcato a Lampedusa il 12 settembre dello scorso anno e dopo qualche giorno anche lui accolto allo Sprar “Polito” di Castelvetrano. Liban, occhi neri e penetranti, sogna di studiare e diventare medico. Vuole tornare in Somalia per “aiutare chi non ha i soldi per curarsi”. È scappato dalla sua terra per non essere costretto a prendere parte alla guerra civile che lì è in corso ormai da decenni. Anche il viaggio di Liban verso l’Italia è stato pervaso da tragici eventi, che inevitabilmente segnano per tutta una vita.
“Per raggiungere la Libia – spiega – ho attraversato l’Etiopia e il deserto del Sudan, dove, con altre persone, sono sopravvissuto per 20 giorni. Avevamo acqua e dei mezzi che ci trasportavano. Quando sono arrivato in Libia sono stato subito arrestato e condotto in prigione, dalla quale poi sono  riuscito a scappare. Sono rimasto a Tripoli per due mesi, il tempo per racimolare i soldi per la traversata, che ho affrontato su una piccola barca con altri 96 compagni di sventura, inclusi bambini e donne”.  
(Margherita Leggio - Trapani)